Articolo di Silvia Toso, immagine di José Buendìa

Employer Branding: il tema che affrontiamo oggi é ancora poco esplorato dalle piccole e medie realtà italiane. Abbiamo provato a farlo insieme a Martina De Gobbi, Marketing Specialist di Piano Bis, un network di consulenti a servizio dell’avvio d’impresa, PMI e Terzo Settore orientato a sostenere le piccole e medie realtà imprenditoriali, promuovendo benessere, impatto e sostenibilità.

Con Martina abbiamo indagato su cosa si muove in Italia intorno al tema dell’Employer Branding e del benessere aziendale nelle realtà imprenditoriali tradizionali di piccola e media dimensione, ma anche nel mondo dell’innovazione, delle imprese sociali e abbiamo provato a capire quali possono essere le eventuali contaminazioni tra questi mondi.

Siamo partite dall’esempio di alcune realtà italiane come Brunello Cucinelli o H-Farm e siamo andate alla ricerca di strumenti concreti alla portata di tutte le aziende per valorizzare i dipendenti e migliorare la propria immagine con autenticità.

D – Martina, le realtà internazionali medio-grandi lavorano sul tema Employer Branding da almeno 15 o 20 anni. Qual è oggi, secondo te, la consapevolezza che si ha in Italia, nel mondo della piccola e media impresa, intorno a questa tematica?

R – Hai fatto bene a specificare piccola-media impresa, in realtà la PMI è ancora molto lontana da questo concetto. Sono idee piú legate a realtá internazionali che nazionali, provengono dal mondo dalla Silicon Valley o da altre realtà più innovative nella gestione del personale. In italia questo tipo di approccio lo possiamo ritrovare in aziende medie o grandi, che cominciano a interrogarsi anche su questi aspetti. Abbiamo alcuni esempi positivi come il caso Brunello Cucinelli o, qui in Veneto, esperienze innovative come quelle di H-Farm, nella campagna di Roncade (TV). Peró, parliamo sempre di realtà medio-grandi.

D – Quali sono i punti di forza di queste realtà nostrane? Che cosa é interessante apprendere da loro?

R – Brunello Cuccinelli è un imprenditore umbro del tessile di qualitá, prevalentemente moda uomo, che ha fatto storia con la sua azienda. Legame con il territorio, Made in Italy e artigianato locale sono i suoi punti di forza insieme alla capacità di valorizzare i dipendenti, mettendo l’etica e la dignità del lavoro al centro della sua proposta imprenditoriale e della sua comunicazione. Ha fatto clamore, ad esempio, con la suddivisione di parte degli utili tra tutti i lavoratori di ogni livello. Si tratta quindi di fornire benefici tangibili, che i dipendenti avvertono nell’immediato e che danno un rapido ritorno anche in termini economici perché laddove i dipendenti stanno bene lavorano meglio e producono di piú.

Allo stesso tempo si tratta anche di proporsi con un approccio etico e veritiero da comunicare all’esterno. Si ha cosí una duplice ricaduta, sia sul dipendente che sul brand. Si attraggono nuovi possibili dipendenti e si comunica con il cliente, che é sempre piú attento a comprare da chi si spende anche per il benessere dei propri lavoratori.

Un altro esempio interessante lo abbiamo qui in Veneto: è H-Farm, nata come incubatore di start up di innovazione digitale e calata nella campagna di Roncade (TV). Questa azienda è ad oggi il più grande centro di innovazione d’Europa e riunisce piú di 250 startups. La sede è situata in una zona di grande appeal. C’è un’attenzione particolare agli spazi di lavoro, i dipendenti possono svolgere le loro attività nel giardino o davanti a grandi vetrate, con una flessibilità dello spazio di lavoro che oggi è stata incentivata tantissimo con lo smart working. Parliamo, però, di una flessibilità a 360 gradi: flessibilità di agire, di comportarsi e anche di proporre. Questa possibilità attrae tantissimi giovani che vogliono sperimentare una visione un po’ piú innovativa e internazionale rispetto alle classiche realtà italiane.

È importante che questo strumento di valutazione del benessere si traduca poi in azioni correttive, bisogna essere pronti ad agire di conseguenza e pensare al budget che ci va dietro.

D – Come si puó misurare il ritorno di investimenti fatti in questo ambito?

R – Un modo per farlo è verificare il turnover dei tuoi dipendenti. Se un’azienda ha una certa storicità, dipendenti che sono lí da molto tempo, professionisti che rimangono all’interno dell’azienda, è la dimostrazione che in quell’azienda si lavora bene: parliamo di salario, orari, spazi, clima positivo, risposte ad esigenze specifiche, trasparenza. Al contrario, se l’azienda vede che i dipendenti piú strategici cominciano ad andarsene e questo turnover è una costante, deve iniziare a porsi delle domande. Forse non premio abbastanza? Forse non li valorizzo nel modo giusto? Forse non c’è abbastanza meritocrazia? Anche per la persona nuova che si inserisce, il fatto che ci siano dipendenti che rimangono a lungo in azienda è una garanzia. Quindi, se non si riesce a misurare il ritorno d’investimenti in questo ambito con altri strumenti più specifici, sicuramente questo è un buon metodo. Alcune aziende misurano il benessere aziendale anche con questionari di gradimento del benessere aziendale, ma bisogna fare molta attenzione.

D – Che errori bisogna evitare?

È importante che questo strumento di valutazione del benessere si traduca poi in azioni correttive, bisogna essere pronti ad agire di conseguenza e pensare al budget che ci va dietro. È ragionevole pensare che non tutto possa essere sistemato in un’unica soluzione, ma spesso questi questionari vengono fatti perché è buona consuetudine senza pensare che devono avere un seguito. La questione su cui interrogarsi è quanto queste attenzioni al benessere aziendale siano volte effettivamente alla qualità dell’ambiente di lavoro e quanto, invece, solo al mostrarsi al cliente o a possibili finanziatori con una determinata immagine, o ancora a ottenere determinate certificazioni di responsabilità sociale. La Corporate Social Responsability (CSR) ha circa 10-15 anni di storia, ma spesso viene vissuta piú come requisito necessario per ottenere determinate certificazioni invece che come qualcosa di effettivamente sentito dall’azienda. Dovremmo creare piú consapevolezza all’interno dell’azienda: se il clima di lavoro è positivo e i propri dipendenti lavorano bene anche l’azienda ci guadagna.

D – Anche perché altrimenti si rischia di perdere un tassello fondamentale: creare un buon ambiente lavorativo permette di attrarre i talenti migliori…

R: Esattamente. Oggi saranno sempre piú i ragazzi a scegliere dove andare a lavorare e non tanto le aziende a sceglierli, perché il fatto di poter accedere a posti di lavoro lontani da casa abbatte i limiti della selezione delle realtá lavorative in cui lavorare su base territoriale. Anche l’azienda deve diventare appetibile.

“Un buon clima aziendale si instaura quando il dirigente é in grado di delegare. La delega presuppone il concetto di fiducia. Posso delegare se mi fido del dipendente e se il dipendente sa che il dirigente si fida del suo lavoro, dà il massimo; al contrario il dipendente non apprezzato, non valorizzato, non si impegna particolarmente.”

D – Da ricerche fatte in grosse aziende internazionali la responsabilità per costruire un buon Employer Branding é piú in mano ai CEO e al marketing che alle risorse umane e al recruiting. Il caso Cucinelli lo conferma. Qual è il ruolo che devono avere i dirigenti in questo ambito?

R – La prima cosa da fare è creare una cultura del benessere e dell’attenzione ai dipendenti. Se questa diventa una cultura condivisa, azioni di questo tipo diventano inevitabili. L’HR arriva dopo. Chi corre sono i dirigenti che hanno in mano il governo dell’azienda e sono loro che creano gli equilibri o squilibri, sono loro che creano o distruggono il benessere. Un buon clima aziendale si instaura quando il dirigente é in grado di delegare. La delega presuppone il concetto di fiducia. Posso delegare se mi fido del dipendente e se il dipendente sa che il dirigente si fida del suo lavoro, dà il massimo; al contrario il dipendente non apprezzato, non valorizzato, non si impegna particolarmente. L’HR arriva dopo, il cuore dell’azienda è in mano a chi la dirige e il marketing ha un ruolo importante, ma solo se c’è una strategia condivisa.

D – Per la tua esperienza con le piccole realtà italiane (PMI) si puó oggi cominciare a parlare di employer branding? Qual é la realtà che ci troviamo davanti in termini di dirigenti aziendali?

Per le piccole aziende sarebbe anche piú facile, è piú semplice mettersi d’accordo e far sentire bene poche persone. Si potrebbe fare anche con uno sforzo relativo. Il grande passo da fare è quello culturale, per cui i dipendenti non vengonovengano visti come pedine sostituibili, ma come persone con una loro unicità. La valorizzazione del dipendente è un boomerang positivo che torna indietro facendo guadagnare l’azienda. Se riesce a fare questa trasformazione culturale, l’imprenditore ha fatto bingo.

Sul nostro territorio ci sono sicuramente realtà piccoline in cui il clima è positivo. Non tutte le piccole realtà hanno il “padrone” che si impone sui propri dipendenti, peró ancora non si parla di questo tema. Viene vissuto come la quotidianità, non viene dato un nome a questa cosa e ancora non se ne fa una cassa di risonanza esterna per attrarre clientela e talenti.

“Sarebbe bello che anche le imprese profit potessero in qualche modo riuscire a far condividere un sistema valoriale ai propri dipendenti, perché la condivisione di quei valori e la convinzione nel portare avanti la mission diventa premiante.”

D – Andando invece nel terzo settore, esistono esperienze italiane di realtà che riescono a posizionarsi tra i candidati anche grazie all’Employer Branding? Che suggerimenti potremmo dare alle imprese sociali per fare un buon Employer Branding nel terzo settore? Sono gli stessi che possiamo dare alle imprese?

R – Mi viene in mente un cliente che stiamo seguendo adesso, una realtà cattolica che gestisce una serie di strutture per anziani in cui lavorano moltissimi dipendenti e volontari, che a loro volta hanno ricevuto in passato l’aiuto di questa realtà per risolvere le loro problematiche. In alcuni casi sono totalmente volontari, in altri sono in parte volontari e in parte dipendenti. La loro riconoscenza verso la cooperativa, data tramite il loro lavoro volontario, comprova la bontá dell’organizzazione e del progetto stesso. Ai volontari vengono affidati ruoli rilevanti e tale centralità viene anche comunicata all’esterno. Volontari e dipendenti-volontari diventano il cuore stesso dell’attività e ciò viene comunicato esternamente come parte della strategia dell’organizzazione.

D – E invece al contrario: le imprese profit che suggerimenti possono raccogliere dal mondo del sociale per migliorare la loro offerta come datori di lavoro?

R – Sicuramente il mondo del sociale é molto legato alla condivisione e alla partecipazione attiva ad un progetto comune. Se una persona sceglie di lavorare in un ente del terzo settore è perché ne sposa la missione. Chi, invece, lavora nel profit non è detto che si rispecchi nei valori e nei prodotti di quella azienda. Sarebbe bello che anche le imprese profit potessero in qualche modo riuscire a far condividere un sistema valoriale ai propri dipendenti, perché la condivisione di quei valori e la convinzione nel portare avanti la mission diventa premiante. Esempi come quello di Cucinelli vanno in questa direzione.

D – Ci racconti qualche esperienza interessante che ti possa essere capitato di conoscere nella tua attività di consulente?

R – Di recente ho seguito uno studio dentistico, una realtà con una ventina di dipendenti, fondato da due titolari ancora presenti attivamente in azienda, che ha contattato Piano Bis per un piano di marketing e di digital marketing. Nel corso dell’analisi, abbiamo verificato una serie di squilibri interni che danneggiavano il clima aziendale. Il campanello d’allarme è arrivato quando alcuni dipendenti storici dell’azienda sono andati via. Questa constatazione ha portato i titolari al desiderio di rendere l’ambiente piú trasparente e di migliorare il dialogo interno, anche attraverso alcune sessioni di Team Building, con l’obiettivo di ricreare un equilibrio positivo nell’organizzazione. Tra i valori fondamentali dello studio vi erano infatti l’accoglienza, l’ascolto, la comprensione dei timori dei pazienti, lavorare sui propri dipendenti faceva parte del lavorare su questo tema. Un sistema di accoglienza funziona se il clima aziendale é esso stesso accogliente.

D – Che tipo di dirigente bisogna essere per avere questa consapevolezza? Chi bisogna essere?

R – Oggi non serve essere degli illuminati, basta avere una certa dose di capacità di ascolto, umiltà, sapersi mettere in discussione e capire che abbiamo bisogno anche degli altri, che non siamo delle cellule uniche, ma che il lavoro di squadra è una componente fondamentale. Perció quello che serve è avere la volontà di inglobare questa cultura: delegare, valorizzare, fare squadra.

Articolo a cura di Silvia Toso.

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REFERENCES

https://www.pianobis.it/

https://www.brunellocucinelli.com/en/

https://www.h-farm.com/it

Clelia Calabrò
Clelia Calabrò
https://therebelcompany.co

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